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Ines Cicirelli

I Vruchi di Fiumefreddo

Calabria

Il culto per San Rocco, in Calabria è molto sentito.

A San Sisto dei Valdesi frazione di San Vincenzo La Costa provincia di Cosenza paesino ameno non molto lontano da Fiumefreddo, la devozione per San Rocco è grande.

Negli anni 50 del secolo scorso essendo un paese agricolo privo di altre risorse lavorative, vi era una grande emigrazione verso il  Canada.

Le ragazze ed i ragazzi la notte a gruppi andavano in montagna a prendere la legna per fare le fascine che servivano per il fuoco domestico.

Non avevano le scarpe, ma i ragazzi si confezionavano le purcine, e le ragazze “i pieddri” con pezzi di gomma riciclata che si legavano ai piedi con lacci di corda o di fettuccia. Queste erano le scarpe. Cantavano in coro inni antichi storici in dialetto di San Sisto perché ogni paese in Calabria ha un dialetto diverso, anche se somigliante negli accenti e nelle consonanti.

Ma cantavano anche canzoni che sentivano alla radio, e che seguivano con il canzoniere che si vendeva a Montalto Uffugo località vicina, perché a San Sisto non vi erano rivendite di giornali.

Il canzoniere stampato su un foglio giallo riportava le canzoni  “moderne”.

Comunicavano da un posto all’altro chiamandosi per nome e l’eco trasmetteva le loro voci.

Le fascine venivano portate sulla testa sopra la “curuna” corona che consisteva in uno straccio che veniva avvolto a forma di ciambella messo come cuscinetto per isolare la legna che pesava e rendeva la deambulazione più faticosa. Questa usanza della legna e di altre cose portate sul capo vigeva nel Lazio in Abruzzo e altre regioni.

Alle Comicelle frazione di Montalto Uffugo provincia di Cosenza, c’è una via che si chiama via “Spunituri” luogo ove si mettevano tutta la merce che le donne portavano in testa.

Paradossalmente la “corona” nella storia ha sempre rappresentato potere e sacralità.

A San Sisto vi è una chiesa che risale ad alcuni secoli.

E’ molto molto bella.

Negli anni 50 alcuni inginocchiatoi erano riservati ad alcune famiglie nobili.

C’era l’organo che veniva suonato dai ragazzi. Addossato al muro della Chiesa vi era un sedile in muratura (bisuolo).

Questo era il luogo ove gli anziani del paese s’incontravano e stavano seduti mattina, pomeriggio e d’estate anche di sera parlando dei loro problemi, dei loro ricordi.

Vi sono palazzi patrizi e case con logge e porticine con spioncini tipici di una architettura storica dovuta alla presenza nei secoli passati di una comunità che professava la religione valdese.

Le piante che mettevano sulle logge erano prevalentemente i gerani dal colore rosso fuoco, 

che in dialetto venivano chiamate “vampe”fiamme.

L’arredamento delle case era semplice, i pavimenti  erano formati da mattoni rustici che venivano puliti con le scope fatte con “la miepita” mepitella. Si spruzzava l’acqua e si scopavano con queste scope profumate i pavimenti e l’ambiente veniva profumato così.

I letti erano formati da cavalletti di ferro ove sopra vi erano delle tavole. Su queste si mettevano 4 materassi. I primi due erano riempiti con foglie di granturco, sopra si mettevano altri riempiti con lana di pecora, o di crine a secondo delle condizioni economiche della famiglia.

Sul comò o sulla toeletta che ricordavano lo stile liberty, venivano messe addossate agli specchi le fotografie delle persone più care.

Una fotografia era molto comune a quasi tutte le famiglie; vi era effigiato un matrimonio con gli sposi; la sposa indossava un vestito lungo bianco ed un velo che copriva la testa e la fronte, fino ad arrivare ai piedi e formare per terra sul davanti una grande nuvola di tulle.

Ai lati degli sposi vi erano 4,8 o 10 bambine “le damigelle” con vestitini bianchi, lunghi ed in testa coroncine di fiori.

Gli sposi erano i parenti che emigrati negli Stati Uniti da tempo, costituivano l’orgoglio della famiglia: “avevano fatto fortuna”.

Sopra altri mobili sempre messi sugli specchi vi erano fotografie di  ragazzi in divisa militare.

Erano i famigliari morti nella “Grande Guerra” 1915-1918.

I palazzi gentilizi avevano un arredamento sontuoso.

Vi era il salotto barocco con grandi specchiere dorate.

Vi era anche la Cappella consacrata situata in un vano nel muro e chiusa da una porta a due ante di legno bianco.

In questa Cappella si celebravano battesimi, matrimoni ed altri riti dei vari componenti della famiglia.

Don Linardo (Leonardo) era il postino che tutti i giorni da San Vincenzo la Costa a piedi portava la posta, indossava un cappellino scuro con la visiera che faceva parte della divisa.

Annunciava la sua presenza che era attesa e gradita con un fischietto, chiamando per nome il destinatario.

Camillo era il falegname del paese, bravo artigiano che per i giovani sposi costruiva i mobili “moderni” di legno di noce e di castagno. Anche Camillo è emigrato in Canada.

Donna Teresa era insegnante di lettere.

Si occupava volontariamente della renitenza scolastica e preparava i ragazzi a sostenere gli esami di scuola elementare media e presso l’istituto magistrale.

Ospitava gratuitamente a casa sua anche i ragazzi che abitavano nei paesi limitrofi.

Dall’insegnamento di Donna Teresa prestato gratuitamente alcuni ragazzi hanno conseguito il diploma di scuola elementare.

La casa di Donna Teresa aveva un giardino con una bella pianta di fiori di zagare, lei spesso diceva “il profumo di questa pianta mi allieta lo spirito”.   

Donna Teresa non è emigrata, ha continuato nella sua azione di promozione sociale e culturale.

Sia Maria Clausi

Il Sia è un titolo ereditario femminile che veniva dopo il titolo nobiliare di “donna”.

Sia Maria nel paese aveva un ruolo importante.

Le persone specialmente le donne andavano “a consiglio” cioè a chiedere chiarimenti e consigli sui problemi familiari: fidanzamenti dei figli, rapporti con parenti, con vicini di casa ecc.

Un argomento che interessava molto era quello legato a redigere il testamento ereditario o all’esame dei testamenti già redatti in riferimento alla proprietà immobiliare di case e terreni agricoli, quest’ultimi non molto grandi ma che avevano importanza per la sussistenza giornaliera.

Il grande latifondo non esisteva quasi più ma era appartenuto solamente alla nobilità.

Sia Maria organizzava e preparava i festeggiamenti per pranzi di nozze e battesimi.

Le ricette culinarie erano “antiche”.

Si riferivano al secolo 1800 ed erano molto apprezzate e motivo di vanto.

Sia Maria diceva “in queste ricette specialmente nei dolci è la nostra storia”.

A casa sua c’era la macchinetta del caffè “la napoletana” sempre sul fuoco.

A tutte le persone che andavano a trovarla, veniva offerta una tazzina di caffè.

Questa usanza era diventata una tradizione alla quale tutti tenevano. Assisteva la levatrice quando nasceva un bambino, faceva iniezioni, ed era molto brava a curare le slogature, che erano molto frequenti considerate le strade dissestate, specialmente quelle di campagna.

Curava i piedi quando venivano punti da spine di piante o feriti da vetri perché alcune donne andavano scalze.

Per gli abitanti, Sia Maria era un punto di riferimento ed una persona carismatica.

In cambio riceveva molte stimanze (frutta, vino salami e molti altri prodotti).

Le stimanze avevano un significato di ringraziamento per avere ricevuto qualcosa di molto importante: cioè era come dire “ti stimo per quello che hai fatto”.

La casa di Sia Maria era formata da un adrone piuttosto grane con una scala con la quale si accedeva al primo piano.

Vi era la loggia spaziosa ove non mancavano i gerani rossi “le vampe” ed altre stanze ampie situate una dentro l’altra.

Nella prima vi era la cucina dalla quale si accedeva sulla loggia; in un angolo piuttosto spazioso c’era il focolare con il pavimento formato da mattoni e questo serviva per preparare i cibi o per riscaldarsi.

Ai lati vi erano due panche in stile 800 con lo schienale di legno di castagno che servivano per sedersi.

Il focolare si usava per mettere sul treppiede la “quadara” pentola di rame grande, per cuocere le marmellate, il miele di fichi, la carne di maiale, ecc. In un altro angolo delal cucina vi era “la cucina economica” costruita in muratura, formata da tanti fornelli ed un forno che venivano accesi con il carbone.

Il calore dei fornelli era regolato da graticole formate da tanti cerchi di ferro, il cui numero aumentava o diminuiva a secondo la gradazione del calore che si voleva.

Queste cucine economiche rivestite da maioliche molto belle, erano l’orgoglio della casa.

Ma già da allora anni 1950, erano superate dal gas liquido.  Ancora sono presenti in qualche casa, come oggetti di arredamento.

Nell’ultima stanza sul pavimento vi era una botola di legno “u cataratto” che immetteva in una scala con la quale si potevano raggiungere altri locali della casa.

In uno di questi vi era una cassa “cascia” pieni di libri che erano appartenuti allo scrittore Bevilacqua, vissuto negli ultimi anni del secolo 1800.

Nella casa vi erano alcuni quadri di santi dipinti nel 1800.

San Francesco di Paola era appeso nella camera da letto.

C’era pure il quadro del venerabile Padre Bernardo Clausi dei frati minimi. Il Venerabile Clausi è nato a San Sisto dei Valdesi e la casa ancora esiste.

Il Venerabile Clausi era un parente di Sia Maria.

Anche Sia Maria è andata  in Canada a raggiungere i figli che erano già emigrati, ma è ritornata a San Sisto. La sua Patria era l’Italia e in Italia è voluta ritornare per sempre. 

“U guardiu” la Guardia Comunale

A  San Sisto nel corso principale, fra due case nobiliari, in una piazzetta vi era una fontanella di acqua potabile.

Le persone che non avevano a casa l’acqua, si servivano di questa fontanella.

La fontanella veniva anche usata per lavare i panni e per lavarsi i piedi.

Tutto ciò era proibito. “U guardiu” , cioè la guardia comunale, controllava che uso della fontanella ne facevano gli abitanti.

Allora quando le donne andavano a lavarsi i panni o i piedi controllavano che “u guardiu” non fosse presente.

 

Se in lontananza lo vedevano arrivare, dicevano “u guardiu, u guardiu” e scappavano.

La devozione per San Rocco era ed è grande.

Vi era la tradizione che tutte le ragazze dovevano indossare un vestito nuovo per la festa e per partecipare alla processione, e tutte le ragazze anche quelle che erano in attesa di emigrare o sul punto di partire rispettavano questa tradizione.

La cosa che veniva detta in continuazione prima della festa di San Rocco era “che ti mindi per Santu Ruocco”  cosa ti metti per San Rocco?

Era quasi una cantilena.

Chi non aveva la possibilità per farsi cucire il vestito se lo confezionava da sola.

Paolina e Marcella erano le sarte del paese; due brave artigiane che confezionavano i vestiti, Paolina era considerata una sarta più tradizionale “all’antica” dicevano, Marcella più moderna cuciva “alla moda” cioè secondo la moda cittadina.

I modelli venivano scelti dai “figurini” che avevano.

Venivano pagate in natura (fichi, melanzane, peperoni, olio, farina, ecc.).

Anche Paolina e Marcella sono emigrate in Canada.

L’acquisto della stoffa per confezionare i vestiti veniva fatto o nelle fiere o nei negozietti di fiducia il più delle volte a rate (lasciando ogni mese una quota in denaro).

Questo acquisto costituiva la spesa più importante dell’abbigliamento ed era il risultato di economie domestiche fatte durante l’anno con molti sacrifici  ma costituivano una tradizione propedeutica e subordinata alla festa di Santo Rocco loro protettore.

Dall’attesa della festa, dal modo di come era vissuta, esce un ritratto di grande umanità, di attese, speranze, rinunce, di gioie che caratterizzano la storia della comunità ove la Religione aveva ed ha un ruolo importante.

Quando le persone stavano per lasciare il paese per emigrare, tutti gli abitanti erano presenti, piangendo auguravano “buona fortuna”.

Si scambiavano regalini, anellini, collanine, immaginette di Santi specialmente di San Rocco.

La frase che tutti gli abitanti che rimanevano dicevano con dolore era “non ci dimenticate, questo è sempre il vostro paese”.

Si abbracciavano, con frasi dette in dialetto invocavano la protezione della Madonna, dei Santi, che dovevano accompagnare la vita degli emigranti.

Si assisteva a scene di grande dolore.

Alcune donne piangendo dicevano “ mi rascherra, mi rascherra” mi graffierei, mi graffierei e mettevano le mani sul viso e con le unghie se lo graffiavano.

L’espressione del viso era drammatica e la mimica la rendeva tragica.

Questo modo di esprimere il dolore proviene da una tradizione dei paesi di origine albanese che sono in Calabria.

Un’altra frase che veniva detta quanto arrivava la notizia della partenza era “mala nuova, mala nuova” brutta e cattiva novella “notizia”.

L’emigrazione era diretta in Canada però alcune persone andavano anche negli Stati Uniti.

Per andare in Canada si partiva dall’aeroporto di Ciampino a Roma, per andare a New York si partiva dal molo di Santa Lucia a Napoli.

Napoli e Roma venivano raggiunte con un treno che aveva una “carrozza diretta” che da Cosenza arrivava a Roma, con gli scompartimenti di I, II e III classe.

Gli scompartimenti di III classe avevano i sedili in legno.

Questo treno passava da San Fili provincia di Cosenza, ove vi era la stazione ferroviaria.

Per questa stazione partivano molti emigranti.

Gli ultimi saluti avvenivano sulla banchina, mentre il treno stava per arrivare.

Chi doveva partire saliva sul treno portandosi dietro tristezza, angoscia e speranza mista ad insicurezza nel dovere affrontare una nuova realtà.

Chi rimaneva con le lacrime agli occhi salutava sventolando il fazzoletto e pensando che forse non si sarebbero più visti.

Tra chi partiva e chi rimaneva vi era una stessa certezza: una fase della vita stava passando, e ne incominciava un’altra.

La società stava cambiando ed era necessario conoscere se stessi per affrontare le nuove realtà.

La stazione ferroviaria ora non c’è più a San Fili.

Al suo posto vi è un ristorante.

La stazione era entrata in funzione nei primi anni del secolo 1900, quando in Italia venne costruita la rete ferroviaria che ha unito il sud al nord ed il nord al sud.

Le stazioni ferroviarie e le case cantoniere costituirono dopo l’unità d’Italia i primi servizi pubblici, nei quali sono state curate le linee architettoniche.

Le belle pensiline liberty, costruite in ferro o in ghisa.

Le pensiline lineari costruite in muratura, che hanno preannunciato le linee architettoniche del razionalismo, le banchine con sedili, le sale di attesa arredate con poltrone, i servizi di ristorazione, ecc.

Ove il treno passava i caselli che si trovavano all’inizio e alla fine della stazione annunciavano a grosse lettere il nome delle località servite.

Ai lati delle banchine principali  di solito vi erano le aiuole con piante di mirabilis Jalapa nome botanico, ma comunemente vengono chiamate belle di notte, perché i fiori profumatissimi e dai colori giallo, rosso, bianco, amaranto, ecc. si aprono al tramonto.

Questi fiori che crescono con poche cure, erano comuni specialmente in Calabria, ed erano diventati una caratteristica delle stazioni.

Attraverso le stazioni ferroviarie è passata la storia d’Italia, e quindi hanno un grande valore storico sociale ed umano. Costituiscono i monumenti storici del passato ferroviario italiano.

La storia degli abitanti di San Sisto è la storia degli abitanti del sud Italia ed in parte del nord d’Italia che sono stati costretti ad emigrare.

Tuttavia nei luoghi dove sono andati hanno formato le comunità italiane ed hanno portato e conservato gli usi ed i costumi.

La religione, con i suoi riti e specialmente le processioni hanno aiutato gli emigranti ad affrontare le nuove realtà sociali ed hanno rafforzato un legame spirituale forte con la propria terra d’origine.

 


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